Il disastro della miniera Monongah

Tra i molti tipi di lavoro (quando si riesce a trovarne uno) c’è una casistica chiamata “lavori usuranti”, ovvero attività particolarmente pesanti, faticose o svolte in condizioni difficili che compromettono seriamente la salute di una persona.
Alcuni esempi sono i lavori in fonderia, in cava, a contatto con amianto o sostanze chimiche tossiche, lavori in spazi ristretti o quasi esclusivamente notturni. Oggi questi tipi di lavori sono tutelati, controllati e in un certo senso premiati con un sistema pensionistico agevolato, ma fino a poco tempo fa erano purtroppo scenario di morti atroci.
Se poi andiamo indietro nel tempo a prima delle guerre mondiali la sicurezza e il controllo erano praticamente assenti e chissà quante vittime senza nome hanno mietuto. Uno dei peggiori disastri della storia in termini di vite umane fu l’esplosione e il crollo della miniera di Monongah, che portò alla morte di quasi mille minatori, alcuni dei quali poco più che bambini. Tra di loro c’erano molti italiani giunti negli USA all’inizio del secolo in cerca di fortuna, portando con loro solo fame e disperazione e offrendo l’unica cosa che potevano: le proprie braccia.
Monongah era una cittadina del West Virginia di circa 2.000 abitanti, una delle tante dove i disperati si affollavano perché offriva lavoro in miniera, un lavoro durissimo ma sempre alla ricerca di personale (da sfruttare). I minatori venivano impiegati in attività pesantissime e nelle quali la mortalità era altissima: la sicurezza era praticamente nulla, non c’erano dispositivi di protezione e sotto terra si respirava gas venefici per tutto il turno, che durava anche 16 ore al giorno; veniva impiegato chiunque avesse sufficiente salute e forza, perfino i bambini di 7-8 anni e quando capitava qualche incidente il cordoglio era pressoché nullo.
A Monongah si estraeva carbone, una risorsa in crescente richiesta dal mercato e che richiedeva continuo impiego di operai; il problema del carbone fossile era che sotto terra nelle gallerie si formavano nubi ristagnanti di monossido di carbonio (letale per l’essere umano) e che in particolari condizioni bastava una scintilla per causare un disastro come quello di Centralia. E come ci si muoveva nei profondi cunicoli da centinaia di metri di profondità? Con lampade ad olio o a kerosene.
Alle ore 10.08 della mattina del 6 dicembre 1907 avvenne ciò che in molti avevano previsto: un boato tremendo nell’aria, poi la terra iniziò a tremare per chilometri e chilometri e infine si udì una lunga serie di esplosioni provenienti da sotto terra. Era l’inizio della fine per 956 minatori presenti nella montagna.
La miniera era in concessione alla Consolidated Coal Company, che era una delle compagnie estrattive più avanzate del tempo: utilizzava energia elettrica per i macchinari, un sistema di rotaie e carrelli per il trasporto, ponti di metallo tra i vari tunnel, ventole di areazione dei fornelli (i fori verticali che collegano i vari livelli) e una delle prime teleferiche lungo il pendio della montagna.
Ancora oggi non è chiaro cosa innescò il crollo e le esplosioni, ma in molti credono si sia trattato di un’esplosione di dinamite non prevista o una lampada che si è rotta in un cunicolo saturo di metano (altro componente tossico, ma soprattutto altamente infiammabile che può produrre il carbone); sta di fatto che una volta innescata la prima esplosione fu inevitabile la reazione a catena in tutti i tunnel: il metano era presente ovunque e benchè ci fosse una minima areazione di certo non era efficiente come quella delle cave odierne.
Pochi minuti dopo il boato gli abitanti videro uscire da una crepa nella montagna 4 minatori, sanguinanti e sconvolti: furono tra i pochi a riuscire a salvarsi quel giorno perché le attività nei pressi dell’entrata solitamente iniziavano dopo pranzo, mentre a quell’ora la maggior parte degli operai estraeva carbone nei tunnel in profondità. Gli stessi 4 minatori che uscirono per primi morirono per le ferite.
Nonostante i soccorsi giunsero prontamente, molti di coloro che riuscirono ad essere estratti vivi morirono per le ferite, intossicazione o soffocamento: ironia della sorte, i primi ad essere distrutti nel cedimento delle gallerie furono proprio gli impianti di ventilazione. Al già grave pericolo di crolli dovuti all’instabilità della struttura, si aggiunse anche una concentrazione di gas e nubi di polvere nei cunicoli che permisero solo turni di 15 minuti a testa ai volontari accorsi a prestare soccorso: al tempo non c’erano né maschere né respiratori.
Erano le 4 di pomeriggio quando a soli 40 m di profondità (le profondità della miniera erano pressoché inaccessibili) venne estratto l’ultimo minatore vivo: si chiamava Peter Urban e venne trovato a terra abbracciato al fratello Stanislao ormai morto da ore.
Si proseguì ad estrarre gente fino alla sera tardi, ma quando iniziarono a tornare in superficie solo resti mutilati o carbonizzati fu chiaro che non c’era più nulla da fare per quelli che quella mattina erano nei piani più profondi.
Vennero portati in superficie 361 cadaveri, ma all’appello mancarono 956 minatori (di quelli censiti, perché c’erano anche quelli nemmeno registrati); tra di loro ci furono 171 morti italiani, per lo più emigrati da Calabria, Abruzzo e Molise. Uno di loro, Giovanni Colarusso, aveva appena 10 anni ed era uno dei molti bambini impiegati a scavare in miniera.
Il 19 dicembre, 13 giorni dopo l’incidente, il governo federale pubblicò l’elenco delle vittime e li limitò a puntualizzare che non c’erano norme efficaci per tutelare i minatori e che pertanto quello era stato un disastro imprevedibile e del quale non c’erano colpevoli (in poche parole la compagnia venne scagionata).
Dal 1908 molte società minerarie americane iniziarono ad investire di più sulla sicurezza, ma per decenni l’utilizzo delle dotazioni di sicurezza rimasero volontarie e molti minatori continuarono a lavorare ignorandole. Nel 1910 fu istituito un organo di controllo e ispezione delle miniere, il Bureau of Mines, ma molte compagnie si rifiutarono di aderire all’iniziativa e bisognò aspettare fino al 1969, dopo un altro disastro nella miniera di Farmington, perché venisse stilata una vera legislazione in materia di sicurezza, il “Mine Health and Safety Act”.
Oggi di incidenti in cava o miniera ce ne sono ancora, ma sicuramente non così tragici come in passato. Può sembrare un’iniziativa controproducente, ma molte compagnie e molte imprese (non solo nell’estrazione ma in tutti i tipi di lavoro) hanno capito che investire nella sicurezza migliora l’efficienza del personale e quindi aumenta la produttività: da questo punto di vista, tralasciando sanzioni, denunce e vari problemi burocratici, un lavoratore messo in condizioni di sicurezza rende di più, anche tradotto in termini di guadagno.

FONTE: Misteri dal Mondo – Credere Per Vedere