L’isola del diavolo

Tra le più belle leggende ci sono sicuramente quelle marinaresche che parlano di isole sperdute, incantate o maledette. Si suol dire che in ogni leggenda ch’è sempre un fondo di verità, ma nel caso dell’Isola del Diavolo la realtà supera di gran lunga la più paurosa leggenda a riguardo.
Già il nome dovrebbe farci capire quanto sia terribile (sia stata in realtà perché oggi è quasi completamente deserta), ma qui il diavolo c’entra poco perché i mostri in realtà erano l’uomo e la natura.
Île du Diable, l’Isola del Diavolo, fa parte dell’arcipelago Îles du Salut della Guyana Francese (Sud America), utilizzato come colonia agraria, ma divenuto una tomba per migliaia di persone. Il nome di Isola del Diavolo venne dato nel 1763 dal governatore francese che si ispirò alle dicerie degli indigeni che credevano fosse abitata da uno spirito maligno.
ÎleRoyale, Île Saint-Joseph e Île du Diable furono l’esempio del fallimento coloniale francese: nel giro di due anni dall’insediamento oltre 10.000 dei 12.000 coloni morirono di febbre gialla, dissenteria e altre malattie tropicali; le forti correnti marine impedivano od ostacolavano i collegamenti con il continente e numerosi problemi rendevano ogni sforzo inutile, anche perché i terreni erano poco adatti alla coltivazione.
L’Isola del Diavolo allora venne destinata a luogo di esilio e dal 1852 prese il nome di “colonia penale di Cayenne”. Divenne luogo di sofferenza e di morte per oppositori politici, assassini, rivoltosi, spie e persone scomode che ben sapevano che una volta raggiunta l’isola le probabilità di uscirne vive erano pressochè nulle. Il penitenziaro aveva diverse strutture, ma al contrario di come si potrebbe pensare, non necessitava di molte guardie: l’isola era un’intricata foresta piena di animali letali come ragni, piranha, formiche e serpenti; se poi qualche fortunato fosse riuscito a raggiungere la costa veniva ucciso dagli indigeni locali o divorato in acqua dagli squali che ancora oggi si affollano lungo le coste.
Nella colonia di Cayenne la fuga era praticamente impossibile e lo dimostrarono i soli 2.000 sopravvissuti si 80.000 prigionieri condannati ai lavori forzati dal governo francese. Un motto molto usato dai direttori e le guardie della colonia era:

«Abbiamo due guardiani: la giungla e il mare; se non sarete mangiati dagli squali o le formiche non spolperanno le vostre ossa presto verrete a mendicare di tornare in cella!»

Ma non è che in carcere si stesse meglio: i condannati erano sottoposti a torture e costrizioni inumane; dovevano restare nudi e le uniche cose che potevano indossare erano le scarpe e un cappello e il cibo era scarso e spesso avariato. Chi si ribellava o contestava le regole veniva trasferito sull’isola di Saint-Joseph, dove veniva rinchiuso in celle di isolamento buie, senza finestre e sotto terra, dove era destinato a morire di fame o per la pazzia. Ma c’era anche di peggio: per i criminali più problematici o quelli che riuscivano ad eludere la sorveglianza e scappare nella foresta (sempre che fossero nuovamente catturati vivi) c’erano le “Fosse dell’Orso”, ovvero dei pozzi di cemento chiusi da una griglia di ferro, dove i prigionieri venivano lasciati in balia del sole cocente, delle tempeste e soprattutto dei pipistrelli vampiro. Chi veniva incarcerato sull’isola di Saint-Joseph era cosciente che la sua vita stava volgendo al termine.
Quel regime carcerario durò fino al 1953, quando la colonia penale venne definitivamente chiusa.
Pochi, pochissimi condannati, riuscirono a salvarsi ed un pungo di fortunati riuscì perfino a scappare dall’isola sulle sue gambe. Tra di loro il più famoso fu Henri Carriere che descrisse la sua prigionia e la sua evasione nel libro “Papillon”.
Carriere passò 13 anni sull’Isola del Diavolo e prima di riuscirci provò ben 9 volte la fuga, sempre stroncata sul nascere. La volta buona fu durante una giornata di lavoro per raccogliere le noci di cocco per la colonia: l’uomo si gettò in un torrente e raggiunse la costa, poi con un sacco riempito con noci di cocco si gettò dalla scogliera e usò il contenuto per tenersi a galla mentre si lasciava trascinare dalle onde. Venne recuperato da un mercantile che lo portò in America e l’ fece perdere le sue tracce fino a quando al colonia penale non fu chiusa.
Oggi l’Isola del Diavolo è sede di inquietanti edifici fatiscenti visitati solo da turisti in cerca di emozioni un po’ macabre, ma basta calarsi qualche minuto nell’intricata vegetazione per avvertire la paura e la sofferenza che permeava l’aria fino a metà del secolo scorso.

FONTE: Misteri dal Mondo – Credere Per Vedere