Castel CapuanoLa storia del fantasma di Giuditta Guastamacchia, all’interno di Castel Capuano a Napoli

Castel Capuano, costruito nel 1154,  per volere di Guglielmo detto il Malo, secondo re di Napoli e digli di Ruggero il Normanno.

Nel 1220, la struttura fu trasformata in residenza reale da Federico II di Svevia che affidò a Giovanni Pisano l’ampliamento. Nel XVI secolo, l’edificio divenne sede dell’amministrazione giudiziaria. All’interno vi furono stabiliti, il Sacro Regio Consiglio, la Regia Camera della Sommaria, la Gran Corte della Vicaria, mentre i sotterranei furono adibiti a prigioni.

Tra il 1856 ed il 1861, venne nuovamente restaurato, è cosi è rimasto fino ai giorni nostri.

Castel Capuano 2Molti testimoni affermano che tre le mura di Castel Capuano, vaghi lo spirito inquieto di Giuditta Guastamacchia, donna bellissima quanto crudele, fù decapitata dopo essere stata incriminata di feroci crimini.

Giuditta Guastamacchia era una giovane vedova, madre di un figlio avuto dal primo marito, che per aver frodato il Regno, fu giustiziato sulla forca. Erano gli anni a cavallo della Rivoluzione Napoletana, tra la fine del 1700 e il 1800.

Il padre di Giuditta, non potendo mantenere né lei, né il nipote, decise di chiuderla nel Convento di Sant’Antonio alla Vicaria, dal quale uscì solo nel 1794.

Giuditta, dal sangue caldo e peccaminoso, aveva, fin da dieci anni prima, iniziato una tresca amorosa con un prete, Don Stefano d’Aniello, che di religioso aveva veramente poco. Per nascondere il loro illecito rapporto, il prete, che si spacciava per suo zio, quando Giuditta uscita dal convento, andò a vivere a casa sua, le fece sposare un suo nipote di appena 16 anni.

Tra i due, non ci fu mai veramente un’unione, nell’eccezione biblica del termine, il loro era solo un matrimonio di copertura e Giuditta, rimase sempre a disposizione del prete. Stanco della situazione, il giovane decise di tornare a vivere nel sua paese a Terlizzi, con l’intenzione di denunciare i due adulteri. Giuditta chiese al padre di aiutarla a mettere fine alla vita del marito, facendogli credere che il giovane, l’aveva derubata e più volte malmenata. Fecero tornare il povero malcapitato a Napoli, con la scusa di una rappacificazione con la moglie e una sera, con la complicità di altri due sventurati, ammaliati dalle grazie della perfida Giuditta, strangolarono l’ingenuo ragazzotto di campagna. Ma la sanguinaria assassina, voleva che il cadavere non fosse né trovato, né riconosciuto, con l’aiuto di uno dei complici, che di professione era chirurgo, lo fece a pezzi e diede ad ognuno parte del corpo macellato, per farlo disperdere, nel bosco, nella campagna e nel mare. Uno dei complici, il barbiere, fu però fermato dalla guardia reale che nel controllo di routine, gli trovarono in un sacco, il macabro bottino. Questi, dopo un estenuante interrogatorio, confessò il crimine e i suoi complici. Giuditta, il padre e il prete, intuendo che qualcosa era andato storto, presero la fuga, ma furono rintracciati e fermati sulla strada per Capodichino. Il processo fu breve e tutti furono condannati alla forca, tranne il prete, l’unico che pur essendo presente, non aveva di fatto, toccato il nipote per ucciderlo.

Era il 19 Aprile del 1800.

Giuditta, più di tutti, fu quella punita maggiormente. Dopo l’impiccagione, testa e mani le furono amputate e messe in mostra sulle mura della Vicaria dietro i graticci di ferro, secondo quanto prevedeva la legge per quel genere di delitto.

I teschi di Giuditta Guastamacchia, del padre, del barbiere e del medico chirurgo, sono stati oggetto di analisi per gli studiosi di fisiognomica criminale e sono attualmente conrservati nel museo anatomico di Napoli.