Javed Iqbal: il serial killer di bambini

«… Il corpo del signor Iqbal sarà tagliato in 100 parti e messo in acido come lui stesso ha fatto con molti bambini…»

Se io vi dicessi che questa è stata la sentenza di un vero giudice in un processo realmente avvenuto, mi credereste? Probabilmente no, ma in effetti è ciò che è avvenuto il 16 marzo del 2000.

Sono partito dalle dichiarazioni del Allah Baksh Ranja per darvi un’anteprima del mostro di cui sto per parlarvi: vi assicuro che le sua atrocità furono tali da renderlo uno dei peggiori esseri umani al mondo.

Javed Iqbal nacque nel 1956 a Lahore, nel Pakistan orientale. Era il sesto figlio di un commerciante e sin da piccolo dovette darsi da fare per lavorare e portare a casa qualche soldo. Lavorare per lui non era certo un problema e in effetti si diede piuttosto da fare, perfino durante gli studi.

Attorno al 1978 si trasferì a Shadbagh, dove il padre gli comprò due case: il suo obiettivo era lavorare per conto suo fondando un’impresa di rifusione di acciaio. Fino al 1995 si sa poco della sua vita, se non che vivesse con dei ragazzi adolescenti che lo aiutavano nel recupero dei materiali per il suo business.

Nel 1995 alcuni dei ragazzi che lavoravano saltuariamente per lui lo denunciarono per violenza sessuale, ma nei suoi confronti non fu preso alcun provvedimento e il caso venne archiviato. Tre anni dopo, nel giugno 1998, ai suoi danni giunse una seconda accusa, questa volta di sodomia verso minorenni: anche in quel caso si adottò la linea morbida e Iqbal fu rilasciato su cauzione.

Probabilmente la scelta del giudice fu dovuta al fatto che durante il suo arresto gli agenti ci andarono molto pesante e lo picchiarono procurandogli alcune lesioni sulla spina dorsale che lo paralizzarono per alcuni mesi.

Non si conosce esattamente la data in cui iniziò a uccidere perché si fa riferimento al diario trovato in casa sua sul quale Iqbal annotava minuziosamente i suoi omicidi. Quel diario riguardava solo l’anno 1999 e per questo motivo tutto il processo si basò su quelle prove, anche perché erano più che sufficienti alla sua condanna.

Ad ogni modo su quel diario erano annotati 74 nomi di bambini tra i 6 e i 16 anni scomparsi in zona e mai ritrovati (si crede che ne abbia uccisi più di 130): Iqbal sceglieva le sue vittime tra gli orfani e i ragazzi di strada che avvicinava con promesse di cibo e lavoro; ottenuta la loro fiducia, li convinceva a seguirlo in casa dove li drogava, li torturava e stuprava; infine li strangolava, li smembrava e li scioglieva in una tinozza riempita di acido cloridrico.

Gli omicidi avvenivano alla presenza e con l’aiuto di tre complici, dei ragazzi adolescenti che dividevano la casa con Iqbal.

Nel 1999, quando le sparizioni divennero decine, iniziò una caccia all’uomo che coinvolse perfino l’esercito; Iqbal si liberava dei resti liquefatti scaricandoli nelle fognature, questo fino al giugno di quell’anno, quando i vicini si lamentarono del cattivo odore. A quel punto lui e i suoi complici decisero di buttarli nel fiume Ravi.

Per ogni omicidio Iqbal scattava foto alle vittime e riportava i nomi, le età e le date della morte in un diario.

Probabilmente l’uomo iniziò a sentirsi braccato dalle autorità e dall’esercito che facevano domande in giro sui bambini scomparsi; si aggiunse anche una discussione con i vicini riguardo ad alcuni fusti che aveva in giardino (nei quali versava l’acido cloridrico necessario a dissolvere i cadaveri); sta di fatto che nel dicembre 1999 Iqbal inviò una lettera alla polizia e al giornale locale Daily Jang, dove confessava l’omicidio di 100 ragazzi, di non provare rimorsi e di odiare il mondo.

Nella sua lettera Iqbal scrisse di aver ucciso quei bambini, quasi tutti mendicanti senza una fissa meta, perché avevano cercato di unirsi allo scopo di compiere degli abusi su di lui, cosa che ovviamente non fu affatto creduta (Iqbal aveva 43 anni al tempo). Quella sua lettera fu mostrata ai genitori dei bambini scomparsi, scatenando la loro ira e causando un tumulto generale.

Il 30 dicembre si presentò alla sede di Lahore del giornale affermando di non essere il vero assassino, ma un semplice testimone oculare delle uccisioni e incolpò i ragazzi che vivevano con lui. Si rifiutò di andare alla polizia perché sapeva che le indagini avrebbero portato a scoprire la verità, ma a prelevarlo giunsero oltre 100 soldati, che in poco tempo lo immobilizzarono e lo arrestarono.

Durante gli interrogatori provò a ritrattare la sua confessione, ma la polizia aveva già perquisito la sua casa e aveva trovato tutto il necessario ad accusarlo: i resti di due corpi erano ancora in una tinozza blu nella sua casa; fu trovato il suo diario con le immagini di 105 bambini e 74 nomi, dei quali Iqbal aveva confessato l’uccisione nella propria lettera; furono trovati gli abiti appartenuti alle sue vittime e nel giardino c’era un fusto riempito d’acido che conteneva altri resti.

Nessuno dei corpi era identificabile, ma i genitori di numerosi bambini dispersi riconobbero gli effetti personali dei loro figli.

Se la sua condizione era già compromessa agli occhi della società, Javed Iqbal riuscì a peggiorarla ulteriormente: dichiarò che le motivazioni dei suoi omicidi erano:

– vendicarsi della polizia che quando lo arrestò gli fece del male;

– l’uccisione dei bambini era stato un atto di carità, una via di luce per quelle piccole vite ormai destinate per sempre alla vita del mendicante;

– voleva mandare un messaggio ai genitori dei ragazzi, che pensava fossero responsabili di negligenza;

– si era costituito perché voleva dare della speranza al resto dei bambini mendicanti: lui avrebbe potuto arrivare a 500 omicidi e oltre, ma ad un certo punto si è rifiutato di superare i 100.

Quelle dichiarazioni aizzarono ancora di più i parenti delle vittime, che si presentarono davanti al carcere dove era detenuto in attesa del processo per reclamare il suo corpo e far giustizia per conto loro. Le autorità e l’esercito faticarono a mantenere calma la folla e più volte scoppiarono tafferugli e aggressioni in strada agli agenti.

I suoi complici vennero fermati nella zona del Sohawa, dove stavano chiedendo l’elemosina ai passanti.

Pochi giorni dopo l’arresto Ishaq Billa, la persona accusata di avere venduto l’acido a Iqbal e di avere partecipato agli stupri, si suicidò buttandosi dalla finestra del terzo piano di una sede della polizia.

Il 16 marzo 2000 una corte pakistana condannò a morte il serial killer Javed Iqbal e il giudice Allah Baksh Ranja aggiunse che il corpo di Iqbal dovesse essere tagliato in 100 parti e sciolto nell’acido come lui stesso aveva fatto con molti bambini.

Una settimana dopo la condanna a morte di Iqbal il Gran Consiglio dell’Ideologia Islamica dichiarò che lo smembramento e la dissoluzione del corpo nell’acido andavano contro l’insegnamento islamico del rispetto per un corpo defunto e annullò quella parte della sentenza. Fu quindi condannato all’impiccagione, così come il complice Sajid Ahmad. Un altro complice, un ragazzo 13enne di nome Muhammad Sabir, fu condannato a 42 anni di carcere. A Nadeem Mohammad, l’ultimo complice, gli vennero inflitti 182 anni di carcere: aveva 15 anni fu dichiarato colpevole di 13 omicidi.

Iqbal provò a suicidarsi in cella due volte, ma venne salvato in tempo; tuttavia il 25 ottobre 2001 Iqbal e Sabir furono trovati morti nella loro cella impiccati con delle lenzuola.

I loro suicidi apparenti avvennero appena quattro giorni dopo che la più alta corte islamica del paese aveva acconsentito loro l’appello contro la condanna a morte.

FONTE: Misteri dal Mondo – Credere Per Vedere